«Carta canta» vale anche per il giornalismo?

/ 07.10.2019
di Ovidio Biffi

Il «Corriere del Ticino» ha una nuova veste, presentata ai lettori lo scorso 19 settembre. Lo stesso giorno, terminata la lettura delle 76 pagine rivisitate graficamente, ho scritto due messaggi. Uno l’ho inviato via e-mail al proto (scusate: al responsabile della tipografia) con cui al «Corriere del Ticino» una ventina di anni fa ho condiviso analoghi processi di restyling del nostro settimanale, tuttora stampato in quella tipografia. Il secondo invece non l’ho spedito. Era una lettera ai colleghi del «Corriere», ma prima ancora di concluderla ho avuto un ripensamento: sarei stato solo di disturbo. Il messaggio mirava a un tono scherzoso, con un sotterfugio giornalistico che avrebbe richiesto scuse immediate a Bruno Costantini perché ricopiavo l’incipit del suo editoriale in prima pagina. Solo che mentre lui si riferiva alla città di Lugano, il mio soggetto era il nuovo «Corriere»: ... Non c’è dubbio: il giornale è bello, ha i segni di una nuova identità ancora in costruzione e riesce a minimizzare il dubbio che il cambiamento sia dettato da una crisi che inesorabilmente sta recando colpi mortali all’editoria. Uno vede la nuova veste e non ha dubbi: il «Corriere» è un gran bel giornale. Cosa volere di più? Ritrovare, in questi anni di trasformazioni, un’anima vera che l’editoria sta perdendo non solo a causa della crisi dei commerci e del ridimensionamento della pubblicità. La qualità del giornalismo, di fronte anche ad altri cambiamenti in arrivo, resta il tema centrale...

A questo punto, pensando al disturbo, ho desistito. E il messaggio è rimasto nel pc. In fondo il cambiamento l’hanno voluto, sicuramente ci credono e ne saranno fieri, e sanno anche che ora dovranno sostenerlo, spingerlo e magari cercare di migliorarlo se si faranno sentire voci troppo critiche. Non credo che abbia senso riproporre quanto spiegato da Enzo Iaccheo, art director responsabile del progetto editoriale, cioè che il «Corriere» viene stampato con un nuovo stile tipografico, «cucinato» in una nuova gabbia grafica seguendo un design in verticale (come i vini nobili) per il giornale e in orizzontale per il sito web. Più che sul nuovo arco che i colleghi di Muzzano ora hanno in dotazione, preferisco soffermarmi su chi lo usa, anche perché il «Corriere del Ticino» non è più quello che conosciamo da oltre 125 anni, ha numerosi satelliti (una televisione, una radio, alcuni siti web, il settimanale «Extra», il domenicale «Il Caffè» ora con «l’Illustrazione ticinese»...) gravitanti attorno alla testata giornalistica. Questa specie di faretra reca la sigla Gruppo CdT e dispone di una miriade di frecce per difendere il suo prodotto principale (l’informazione), ma anche per curare il flusso pubblicitario e le varie sinergie che possono scaturire all’interno di questa piccola galassia mediatica ticinese. Basta tener presente che tutta l’informazione e quanto gravita attorno a questo complesso scenario deriva dal giornale cartaceo e la rivisitazione acquista un significato che va oltre la nuova veste grafica. Forse è per questo che delle pagine dell’esordio del nuovo «Corriere» la più emblematica mi è sembrata l’ultima, quella con lo slogan «Carta e digitale» in cui si vedevano Fabio Pontiggia, direttore responsabile, e Matteo Pelli, direttore operativo, con al loro fianco Alessandro Colombi, direttore generale del Gruppo CdT, cioè l’editore. Quella pagina, oltre a promuovere il prodotto giornalistico, trasmetteva anche un messaggio legato agli sforzi che proprietari e amministratori del Gruppo portano avanti da anni per continuare ad avere professionisti a loro agio con le nuove grammatiche dell’informazione nell’era dell’open web.

Da anni editoria e giornalismo stanno combattendo anche in Ticino contro una crisi che avrebbe sempre più bisogno anche di un dibattito pubblico aperto, senza censure e senza paure, soprattutto vedendo che non risparmia radio e televisioni e riguarda anche i social media. Invece ognuno procede isolato, a tastoni: rilanci, tagli, acquisizioni, cessioni... Peter Brock, direttore della Scuola di giornalismo della City University di Londra, nel suo libro Out of Print ricorda l’età dell’oro dei quotidiani nella seconda metà del XX secolo e racconta la storia del lungo declino commerciale che continua tuttora. In questa analisi Brock sostiene che la televisione ha ucciso più giornali di Internet e i social media hanno solo peggiorato le cose, affossando il modello basato sulla pubblicità. Una sola componente non è crollata: la domanda di informazione giornalistica. Anzi: paradossalmente oggi nella società civile si avverte sempre più che l’alternativa, cioè l’irrilevanza e il collasso della credibilità e dell’autorevolezza del giornalismo, finirebbe per accrescere il disorientamento e accrescerebbe i pericoli insiti nel nuovo sistema operativo sociale basato sul network. Questo significa che il giornalismo per ora ha davanti un’unica via di sopravvivenza: convincere editori e marketing a mantenere al centro i lettori e a privilegiare sempre la qualità.