Leggo su «Economist» che la bugia è tornata tra le armi più usate dei politici e ricordo la spiegazione data da Simona Argentieri: «Non sono un caso di malafede (…) Si tratta di “semplice” ipocrisia, mossa dal cinismo e dall’arroganza del potere». Potrebbe anche bastare come spiegazione. Invece apro il Pc e cerco nel mio archivio altri articoli sullo stesso argomento. (A questo punto si insinua un’idea balzana: perché non coinvolgere Siri? Per chi ancora non la conosce, Siri è una segretaria virtuale che debutta sul Mac: come con l’iPhone o l’iPad, tu chiedi e lei risponde a voce e per iscritto sul monitor. Non l’ho mai «usata», e l’idea balzana è di metterla alla prova con questa domanda: «Siri, dimmi una bugia». Un attimo di silenzio e poi sento, e vedo scritta, la risposta della segretaria nascosta nel mio Mac: «Non rientra nelle mie capacità per il momento». Affaire à suivre).
Tra gli articoli archiviati l’indicazione più recente si riferisce al Festival della rivista «Internazionale». A Ferrara a fine settembre il giornalista francese Pierre Haski ha parlato delle «post verità», cioè menzogne che vengono sventolate con tanta sicurezza da indurre gli ascoltatori a andare oltre ai fatti e a trascurare le verità accertate. Haski non si occupava delle bugie di chi sostiene di aver visto un Ufo o gli alieni, o di dittatori criptocomunisti che mentono per alimentare il loro potere; parlava delle bugie che alimentano il populismo e il suo successo in molte democrazie. Ricordando che per Ralph Keyes, creatore dell’espressione «post verità», onestà e verità sono ormai concetti «fluidi» difficilmente distinguibili da menzogna e malafede, Haski cita come esempio la campagna referendaria per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. In uno slogan si sosteneva che Londra - ricorda Haski - «versava all’Ue 350 milioni di sterline alla settimana e che tale denaro sarebbe potuto essere investito nel servizio sanitario nazionale in caso d’uscita dall’Unione europea. L’affermazione era chiaramente falsa: non erano vere né la cifra né la promessa. Ma una volta scritta sugli autobus britannici a due piani è diventata credibile». Ecco un’importante aggiunta: la «post verità» è una bugia che solo in mancanza di pronte e valide smentite cessa di essere tale e ridiventa bugia.
Una spiegazione l’aveva data qualche giorno prima anche l’inviato del «Corriere della Sera» Massimo Gaggi: «Da anni gli studiosi di comunicazione avvertono che la crisi dei media tradizionali e il crescente uso a fini informativi di social media (…) fanno arrivare all’utente informazioni e opinioni di taglio gradito, contribuiscono a creare nella mente di molti realtà unilaterali distorte che non tengono conto delle varie facce di un problema». Gaggi precisava che «la suggestione degli slogan, anche quando contengono promesse palesemente irrealizzabili, fa premio rispetto a un ragionamento razionale legato a processi più faticosi e complessi come la verifica dei fatti». È bastato l’arrivo sul palcoscenico politico di imbonitori eufemisticamente etichettati come «populisti» perché questa evoluzione si manifestasse in pieno, tanto che la politica delle «post verità» oggi caratterizza anche le presidenziali americane. Infatti la si trova alla base sia dello stile di Donald Trump (di successo, ma incomprensibile e irritante anche per i suoi sostenitori repubblicani) sia del seguito avuto da Bernie Sanders sul fronte opposto.
Spiegazione pratica: Trump spara «post verità» e affascina un ceto medio stanco dei bizantinismi e dei vuoti del suo partito che non reagisce; l’enigmatico Sanders ha cercato di farlo con un programma politico privo di coerenza economica e farcito con diverse «post verità», ma Hillary Clinton le ha subito smascherate e censurate. Direte: Sanders ha perso, Trump è nei guai, le «post verità» non rendono. Forse. Ma, si chiede l’«Economist», in Russia e in Turchia avremo lo stesso finale?
Ora basta bugie politiche. Lo chiede un godibilissimo cammeo letterario di Mariarosa Mancuso che spunta dall’archivio. È dell’estate 2007, una pagina di «Appunti per il dopo», che il «Foglio» assegnava a scrittori e giornalisti chiedendo loro un po’ di «chiacchiera funeralizia». Nel suo «dopo» («Non so quale parco giochi mi aspetta nell’aldilà») la Mancuso ipotizzava di poter prendere alloggio «in uno dei Cieli Personali immaginati da Alice Sebold in Amabili resti: paradisi casalinghi che il defunto arreda a propria immagine e somiglianza» e fantasticava un personalissimo paradiso «dove non sia necessario dir bugie. Non intendo le grandi bugie che uno racconta a se stesso e finiscono per diventare parte del proprio romanzetto o romanzaccio esistenziale. Intendo le piccole bugie di nessuna soddisfazione – da compito non finito in tempo – che tengono lontane le scocciature e le permalosità». Affido a lei la conclusione, nella speranza di poter vedere, magari prima del dopo, un paradiso senza «post verità» mosse dall’arroganza o dall’ambiguità.