Se pensi a un secondo referendum sulla Brexit nel Regno Unito ti si stringe il cuore. Perché un altro, il primo non è bastato? E se gli europeisti perdono anche questo, cosa si fa, si separano le acque della Manica? Eppure l’ipotesi è sempre più concreta. Un sondaggio recente dice che il 58 per cento degli inglesi vorrebbe poter dire la propria sul negoziato con l’Unione europea, contro il 42 che invece preferisce non doversi esprimere più. Bisogna infatti intendersi sul referendum: non si tratterebbe più di decidere se restare nell’Ue o uscire, bensì di valutare se l’accordo che il governo di Theresa May ha trovato con Bruxelles è buono e vale la pena implementarlo.
I sostenitori del secondo referendum preferiscono chiamarlo «un nuovo referendum» per ovvie ragioni: la replica della prima consultazione sembra un’operazione testarda di inconsolabili. Mentre qui si tratta di mettere in pratica quel che da tempo l’ex premier Tony Blair va ripetendo: non compri una casa senza averla vista per bene, senza averla visitata ed esplorata. Così non esci dall’Ue senza sapere i termini del divorzio – tanti matrimoni resistono proprio perché i termini dell’allontanamento sono troppo severi o troppo complicati o semplicemente poco convenienti, perché non può accadere anche per il Regno Unito e per gli inglesi?
Il partito a favore del secondo referendum è capitanato dai sostenitori del diritto di cambiare idea. Non tanto sulla Brexit – la maggior parte dei membri del partito è contrario all’uscita – quanto su come si svilupperà il distacco. Uno dei portavoce principali è Andrew Adonis, ex ministro della stagione blairiana e ora membro della camera dei Lord (non eletto quindi, e questo gli viene rinfacciato spesso), che ancora la settimana scorsa ha difeso l’idea in Parlamento durante il dibattito sulla legge per uscire dall’Ue: «Il primo diritto a decidere sulla Brexit è stato dato agli inglesi – ha detto – così anche l’ultima parola dovrebbe essere lasciata agli inglesi una volta che hanno visto i termini dell’accordo negoziato dal governo». La procedura sarebbe semplice: nel momento in cui ci dovesse essere un secondo referendum che boccia l’accordo, il governo può ritirare l’articolo 50 che aveva attivato il negoziato e rivalutare tutto il processo (e dimettersi, soprattutto). Questo è quanto sostiene Adonis e il suo gruppo, per lo più liberaldemocratici e laburisti moderati, che trova spazio e modo di esprimersi sul settimanale «New European», diventato l’organo principale dell’opposizione alla Brexit.
Ma i sostenitori del secondo referendum non sono soltanto gli anti Brexit. Anche i falchi del «leave», come Nigel Farage, ex capo degli indipendentisti, o come il suo superfinanziatore Arron Banks, iniziano a pensare che ci voglia un’altra consultazione. In comune con gli europeisti hanno la certezza che la May non stia facendo un buon lavoro con le trattative: le ragioni sono opposte, ovviamente, gli europeisti pensano che l’accordo sia troppo rigido, i falchi della Brexit si sentono traditi, pensano che la premier stia svendendo la loro cara Brexit. L’esito finale è però simile: il popolo britannico deve dire cosa ne pensa. Su quel che accadrà dopo però ci sono delle divergenze, perché la procedura dell’articolo 50 dice che se c’è l’accordo bene, ma se non c’è, o viene bocciato, il Regno Unito esce dall’Ue senza accordo, lo scenario più catastrofico. Sul ritiro dell’articolo 50 si dovrà quindi discutere, ma è facile immaginare che se il referendum boccia il negoziato e la maggioranza del parlamento è per la revoca dell’articolo 50, il «cuore aperto» degli europei potrebbe avere un grande sussulto.
C’è un altro elemento da considerare: le elezioni locali previste a maggio. Quelle più rilevanti sono a Londra: se qui i conservatori dovessero prendere una batosta, l’equazione sarà immediata. È un altro voto contro la Brexit, quindi un altro buon motivo per chiedere un secondo referendum. A differenza di quel che accadde nel 2016, gli elettori inglesi avranno a disposizione molti più fatti da valutare, sia riguardo gli effetti della Brexit sia rispetto all’impatto che già si registra sull’economia. L’esperienza della Brexit finora non è stata molto positiva. Ma il dibattito, nel Regno Unito, è ancora fermo a prima del giugno del 2016: sembra che nemmeno quel referendum sia mai stato fatto. Si litiga come il primo giorno, sui vincoli dell’Europa, sul bullismo dell’Europa, sulla solitudine britannica scritta nel dna isolano, sulla possibilità di avere un altro rapporto con l’Europa. È come se il tempo non portasse nuove certezze, nemmeno un cambiamento d’idea, soltanto un inasprirsi delle convinzioni già esistenti. Che con i fatti non hanno mai avuto nulla a che fare.