Il vertice europeo del 15 dicembre è l’ultima occasione dell’anno per dare una forma alla Brexit: i capi di Stato e di governo dell’Unione europea dovranno stabilire se il negoziato ha fatto «progressi sufficienti» per poter passare alla fase due, che riguarda gli accordi commerciali. A differenza di quanto è accaduto negli scorsi mesi, Londra e Bruxelles hanno allineato toni e aspettative e continuano a ripetere che si stanno facendo passi avanti e che l’intenzione comune è quella di approfittare di questa chance, ché il tempo è poco e la necessità di un po’ di stabilità è tanta. Ma a fronte di questo rinnovato spirito di collaborazione, sono emersi grandi e fondamentali problemi nella definizione dell’uscita del Regno Unito dall’Ue.
Su due dei tre punti che costituiscono la prima fase della trattativa, si è sostanzialmente arrivati a un accordo.
I dettagli sono da valutare, ma il Regno Unito garantirà i diritti dei cittadini europei sul suo territorio e ha acconsentito a pagare un «Brexit bill», un conto del divorzio, che non è sproporzionato rispetto alle attese europee e che conferma il fatto – già sottolineato dalla premier britannica, Theresa May – che Londra vuole rispettare gli impegni finanziari presi con l’Ue. Si discute sulle cifre, sul lordo e sul netto e sulle incognite imponderabili, ognuno cerca di trasmettere alle proprie opinioni pubbliche il numero che meno spaventa, ma si intravvede, tra le pieghe di una trattativa spesso astiosa, la volontà di mettersi d’accordo. Il problema è il terzo punto: la questione nordirlandese. Da molte settimane i «Brexitologi», quella categoria di esperti che oggi va per la maggiore ed è ricercatissima, avvertono che sullo status dell’Irlanda del nord può precipitare tutto, il negoziato e il governo della May. Perché la Brexit è tutta qui, nella definizione dei futuri confini dell’Ue, una volta che il Regno Unito non ne sarà più membro.
La questione nordirlandese sembra tecnicamente complicata ma in realtà è brutalmente semplice, perché ci sono soltanto due strade percorribili, alternative. Londra ha detto di voler uscire dal mercato unico e dall’unione doganale, e questo significa che per entrare nel Regno ci saranno delle frontiere e delle dogane. L’Irlanda del nord fa parte del Regno e quindi si dovrà prevedere un confine – e i conseguenti controlli – con il sud, cioè con l’Irlanda. La quale però da tempo chiede all’Europa di non avere quel confine, perché i rapporti con il nord sono commercialmente molto solidi e perché reintrodurre una frontiera (che è esistita per settant’anni, dal 1923 al 1993) imporrebbe la ridefinizione non soltanto di trattati commerciali che riguardano centoquaranta aree di scambio, ma anche i trattati di pace. La May ha voluto dare seguito alla richiesta dell’Irlanda, ma la sua apertura ha scatenato una serie di reazioni che le hanno impedito di fare passi avanti concreti con Bruxelles. Se l’Irlanda del nord resta nel mercato unico e nell’unione doganale, di fatto resta parte dell’Ue e non del Regno Unito. Il partito nordirlandese Dup, che garantisce la maggioranza al Parlamento del partito conservatore di governo, non vuole restare nell’Ue, cioè vuole seguire il Regno Unito fuori da mercato unico e unione doganale. Se si prevede un trattamento speciale per l’Irlanda del nord, allora anche altre parti del Regno – la Scozia, il Galles e la città di Londra – lo pretendono e così l’integrità dell’Union Jack è compromessa. Una terza via però non c’è: o l’Irlanda del nord mantiene le stesse tariffe previste dall’Ue e accetta le regole su prodotti industriali e agricoli dell’Ue, o ci saranno necessariamente controlli doganali. Il senso dell’«hard Brexit» è tutto qui, non ci sono scappatoie possibili.
Tecnicamente si può intanto prevedere uno statuto speciale per l’Irlanda del nord, così l’Europa può dichiarare «i progressi sufficienti» e si passa alla fase due del negoziato tra Londra e Bruxelles. Se poi l’Irlanda del nord dovesse votare contro, si finirebbe con la soluzione-incubo, che è il «no deal», ma intanto andrebbe avanti il processo negoziale. Al momento però l’Irlanda del nord non cede e tutti gli altri interlocutori interni al Regno della May sono sul piede di guerra. Come accade da quando il divorzio del secolo sta tentando di darsi una forma concreta, il Regno Unito si trova a dover negoziare prima al suo interno e poi anche con gli europei, che pure stanno cercando di essere, almeno nella forma, più concilianti. Ma non siamo nell’ambito dei cavilli: oggi a gravare sulla Brexit c’è l’idea stessa di Brexit, quell’«hard» che per Londra è imprescindibile ma che significa mettere in discussione ogni cosa, la tenuta del governo della May oggi, la tenuta dell’unità britannica domani.