Due servizi televisivi, due facce della febbre edilizia che nel nostro cantone non pare calare, complici i bassi tassi ipotecari e gli investimenti delle casse pensioni alla ricerca del miglior rendimento, da riversare poi agli affiliati. Il primo – epicentro il Locarnese – accende i riflettori su un insediamento principesco, destinato a forestieri facoltosi. Niente di nuovo, si dirà, i comprensori lacustri sono ambìta preda di agenzie e di investitori fin dai tempi della «Gottardbahn», allorché i viaggiatori d’oltralpe scoprirono l’anticamera del cielo d’Italia e i gai costumi del popolo ticinese, rustico ma spensierato, amante del vino e del canto.
Il secondo servizio mette invece l’accento su alcune isole di degrado urbano, emerse soprattutto a Lugano e a Massagno (e qualche mese prima a Chiasso): alcuni casi di miserie umane cresciute all’ombra di palazzi poco curati e scarsamente seguiti dalle amministrazioni condominiali. Per tutti sono Bronx, quartieri-sentina in cui il disagio sociale macera, una condizione che la scarsa qualità edilizia e l’incuria finiscono per aggravare anziché alleviare. Il cortocircuito è così completo: l’area trascurata attira i ceti più disagiati, che a loro volta nulla fanno – o possono fare – per rimetterla in sesto. Non siamo di fronte alle desolate periferie che caratterizzano le megalopoli, a ghetti controllati dalla malavita, a covi di spacciatori, a centrali della prostituzione: niente di tutto questo; sono però segnali di una possibile metastasi, da aggredire e bloccare tempestivamente. Gli urbanisti lo sanno bene: ogni agglomerato è, almeno in potenza, un incubatore di disuguaglianze. Autoctoni e stranieri, giovani e anziani, famiglie numerose e persone singole si distribuiscono in modo difforme nel perimetro urbano, a dipendenza dell’ammontare delle pigioni, dei servizi offerti, dell’accesso ai mezzi pubblici, della disponibilità di parchi, scuole, giardini, negozi, ritrovi. Segnalare possibili derive nell’anonimato è compito di tutta la cittadinanza. Alle municipalità il dovere di monitorare costantemente la situazione; ai pianificatori e agli architetti il compito di progettare insediamenti a misura d’uomo, non grigi casermoni ma edifici decorosi.
Sul destino del nostro territorio l’allarme è scattato da tempo, ma le forze in campo paiono incontrastabili. Le poche voci che ancora osano sollevare dubbi circa l’attuale modello di sviluppo non fanno breccia nella coscienza della popolazione, che pare arrendersi rassegnata all’avanzare di gru e betoniere. Spesso ci chiediamo che cosa direbbero oggi intellettuali come Piero Bianconi, Guido Calgari, Tita Carloni, sentinelle di un Ticino non ancora del tutto alienato, scrigno prezioso di saperi e di testimonianze. Ogni tanto amiamo rileggere qualche loro pagina, sicuri di appartenere ormai – come diceva Calgari – al novero degli «illusi». Piero Bianconi (1981): «Sempre meno verde, sempre più cemento. Alzo gli occhi sulla collina di Brione, conto cinque gru, cinque sagome patibolari che stanno partorendo cinque nuove case o casupole o casoni su questo pelato pendio gremitissimo di costruzioni lì a contendersi avidamente il sole meridionale (quando c’è), ma il sole per fortuna non si divide, la terra sì e fra poco con ci sarà assolutamente più posto, tutto ausverkauft, e pace». E Calgari, ancora prima (1961): «Secondo me – fa dire ad un suo personaggio immaginario – quando un popolo perde la sua terra non è più niente. La patria? Gli resta sulla carta… un pezzo di carta, ma i padroni sono gli altri». Nel «Tessiner-Reservat» gli abitanti non sono felici come i nuovi governanti vorrebbero: «La gente ha sguardi dimessi e malinconici, tra cui raramente lampeggia un ricordo dell’antica virtù; questa fu infatti una stirpe che diede all’Europa, per secoli, schiere di costruttori, di architetti, di artisti (più tardi, alla Svizzera, schiere di ferrovieri e di funzionari: cosa meno gloriosa eppure utile). Sono tristi, in complesso; vecchi anche di spirito, direi, oltre che di anni; bambini se ne scorgono pochissimi e ciò stupisce, visto che altrimenti non hanno niente da fare e pensando che sono meridionali…».
Brontolii di vecchi nostalgici del tempo che fu? Vediamola pure così, se fa comodo, se consola. Ma intanto questo nostro piccolo lembo è sempre meno riconoscibile e sempre più amorfo; una terra profumata perché sa di colonia. Ma è difficile rifarsi una personalità nel deserto della storia e della memoria.