Molti associano la teologia all’ora di religione, ai seminari diocesani o, nel migliore dei casi, alle dispute sul rapporto tra mondanità e trascendenza. Dibattiti perciò infiniti, pura ginnastica intellettuale. In realtà la teologia ha molte facce e anche molte scuole. La prima grande differenza riguarda la matrice primaria, se l’indirizzo è cattolico o protestante; ma anche le facoltà di comune ispirazione come quelle di Lugano e Lucerna seguono strade diverse, e in proposito è istruttivo dare un’occhiata ai piani di studio e confrontarli. Operazione che consigliamo.
Occuparsi di questa materia vuol dire anche imbattersi in figure eminenti, celebri in tutto il mondo, come i cattolici Hans Urs von Balthasar e Hans Küng, e come gli evangelici Karl Barth e Leonhard Ragaz. Barth, scomparso cinquant’anni fa, il 10 dicembre, ha lasciato un’opera imponente; le sue carte, conservate a Basilea, non smettono di interrogare gli studiosi e di alimentare sempre nuove indagini, fin dalla celeberrima Epistola ai Romani (1919), testo che, per giudizio unanime, ha segnato il dibattito novecentesco.
Ma quella di Barth fu anche una teologia di battaglia, prima come pastore nella comunità argoviese di Safenwil (1911-1921) e poi come professore nelle università tedesche di Göttingen, Münster e Bonn. Esponente della Chiesa confessante, nel 1934 rifiutò di aderire al nazismo, non riconoscendo a Hitler il carisma dell’autorità suprema, nuova divinità terrena, Führer indiscusso della nazione germanica. Agli occhi di Barth, solo un giuramento avrebbe avuto senso: quello prestato a Dio; di conseguenza fu costretto a lasciare l’insegnamento per far ritorno a Basilea, sua città natale, e qui proseguire la sua attività di docente e pensatore, fino alla morte.
Barth tuttavia non fu docile e accondiscendente nemmeno in patria. La sua opposizione al terzo Reich, palese fin dalla stesura della Dichiarazione di Barmen (maggio 1934), lo pose tra gli elementi sospetti, da sottoporre a costante sorveglianza. Le autorità elvetiche misero sotto controllo il suo telefono e cercarono in tutti i modi di zittirlo sulle questioni suscettibili di irritare il potente e ringhioso regime nazista. Nel 1941 un suo opuscolo in difesa della libertà di stampa e di parola (Nel nome di Dio onnipotente) fu sequestrato. Deluso ma non scoraggiato, cercò ripetutamente di attirare l’attenzione sullo sterminio degli ebrei in corso nei paesi dell’Est, specialmente in Ungheria. Nel 1944 fece presente questa tragedia al consigliere federale socialista Ernst Nobs, sollecitando un rapido intervento umanitario in appoggio alle iniziative del console Carl Lutz operante a Budapest. Nell’immediato dopoguerra Barth raccolse i suoi scritti militanti nel volume Eine Schweizer Stimme 1938-1945 (Una voce svizzera).
Un anniversario riguarda anche Ragaz, nato nel 1868 nel villaggio grigionese di Tamins. Centocinquant’anni dopo la comunità evangelica di Tamins-Bonaduz-Rhäzüns lo ricorda attraverso quattro iniziative che si concluderanno nel marzo del 2019 con una tavola rotonda. Esponente del socialismo religioso, pastore attivo nei quartieri operai di Basilea e Zurigo, Ragaz fu – con la moglie Clara – un pacifista intransigente. Durante la guerra del 14-18 concepì un denso manifesto anti-nazionalista che ebbe ampia diffusione, subito tradotto in francese e anche in italiano per iniziativa di L.F. Ferrari: La nuova Svizzera. Sottotitolo: Un programma per Svizzeri e per coloro che vogliono diventarlo. In pagine vibranti, l’autore incoraggiava i connazionali ad abbracciare senza riserve l’ideale umanitario, quel dovere morale che aveva contraddistinto il paese fin dai tempi di Dunant: «La Svizzera può, nonostante la sua modesta mole, avere un grande compito da assolvere [«Auftrag»], il compito di preservare le fonti. Perché in verità: importanti sono i grandi fiumi sulle cui rive sorgon paesi e città, ma ancor più preziose sono le sorgenti, le sorgenti dello Spirito di cui i popoli vivono! Badare acché queste sorgenti restino pure e preservate da crolli e rovine, custodirne ogni polla, ecco una santa missione [«heiliger Beruf»]».
La sua, come quella del collega Barth, fu dunque una teologia pugnace immersa nelle convulsioni del secolo, non neutrale e non indifferente; una teologia libera che nei momenti più drammatici della storia europea non esitò a farsi spiritualmente partigiana.