Attenzione, pericoloso leggere!

/ 05.03.2018
di Paolo Di Stefano

Per fortuna, nei giorni delle elezioni italiane (2–), mi sono consolato della mediocrità dei discorsi politici rigirandomi tra le mani un piccolo libro da 6–. È L’arte di narrare, pubblicato da Guanda. Essendo un libro che apre le porte verso altri libri, in genere capolavori, lo consiglierei a quelli che resistono al fascino della lettura. Autore James Salter, grande scrittore americano, ex pilota dell’Aviazione militare degli Stati Uniti, morto novantenne nel 2015. Un maestro per Richard Ford (5½ al suo ultimo romanzo, Tra loro, uscito in Italia da Feltrinelli). Non distribuisce insegnamenti o istruzioni per l’uso, Salter: racconta il suo rapporto con i libri.

Comincia così: «Può capitare che una persona svenga alla vista di qualcosa, oppure sentendo una notizia, o la voce di una persona creduta morta da tempo; a nessuno capita però di svenire leggendo un libro». Dunque, i libri sono privi di potere emotivo? Tutt’altro. Il primo romanzo citato da Salter è L’amante di Marguerite Duras: nel leggerlo, ricorda, «credevo di essere nell’Indocina francese. Vedevo i grandi viali alberati, gli abiti bianchi, il quartiere cinese... Il romanzo è in prima persona. È una confessione inventata, ma io ci ho creduto. È diventato parte della mia storia del mondo».

Poi Salter riporta un racconto di François Mauriac a proposito di uno scrittore francese che si chiamava Paul Bourget: il quale un giorno, a quindici anni, entrò in una sala di lettura di rue Soufflet a Parigi e chiese il primo volume di Papà Goriot. Lesse per sei ore e terminato il romanzo di Balzac, si ritrovò per strada verso le sette di sera. «L’allucinazione di quella lettura era così forte» scrisse Bourget «che barcollavo... L’intensità del sogno in cui Balzac mi aveva immerso aveva prodotto su di me effetti simili a quelli dell’alcol o dell’oppio. Impiegai qualche minuto ad assimilare la realtà delle cose che mi circondavano e la mia stessa mediocre realtà». Forse, per spingere verso i libri tanti giovani refrattari alla lettura, bisognerebbe proibire certi romanzi in quanto allucinogeni e stupefacenti come l’oppio. Pensate a una fascetta di questo genere: «Attenzione, i romanzi di Balzac fanno male alla salute!». Probabilmente andrebbero a ruba.

Salter è un tossicodipendente da letteratura. Dice: «Penso che leggerò sino alla fine dei miei giorni, come Edmund Wilson, che imparava l’ebraico con le bombole di ossigeno ai piedi del letto». Wilson è stato uno dei critici militanti più intelligenti e autorevoli nel Novecento americano. Apparteneva alla «generazione perduta» di Hemingway, Faulkner e Scott Fitzgerald. A proposito di Hemingway, Salter ha una definizione bellissima: «realismo, ma con riserva». Il suo linguaggio semplice, primario, di poche sillabe e di poche parole rende la sua voce incomparabile. Lo si riconosce ad apertura di libro: «Sul finire dell’estate di quell’anno vivevamo in una casa in un villaggio che guardava le montagne di là del fiume e della pianura». Pensate a quanti scrittori oggi sono talmente privi di stile da essere beatamente fungibili: si somigliano tutti. La mancanza di stile segnala una mancanza di visione del mondo, ci dice Salter. Leggendo Hemingway, succede invece qualcosa di strano: «si percepisce una specie di avvertimento, una carica elettrica che ci fa fremere, come avviene con il sesso». Ecco un’altra possibilità per invogliare i giovani a leggere: sconsigliare i grandi romanzi perché, come dicevano le nonne di certe pratiche sessuali, nuocciono alla vista.

Tra gli scrittori che Salter ama di più c’è Gustave Flaubert, che iniziò a scrivere Madame Bovary trentenne nel 1851 e lo terminò quattro anni e mezzo dopo: il risultato sono trecento pagine definitive e 4500 pagine di minute. C’è un aneddoto molto indicativo dello straordinario rigore stilistico di Flaubert. Quando il suo allievo Guy de Maupassant, trepidando, gli diede da leggere il suo primo racconto, Boule de suif, passati pochi giorni si sentì dire: «È un capolavoro... Cambierei soltanto due parole». Sosteneva Flaubert: «Una buona frase in prosa dovrebbe essere come un buon verso in una poesia, inalterabile, perché altrettanto ritmico, altrettanto sonoro».

Una frase che sarebbe piaciuta a Giorgio Orelli, che ha scritto le sue poche prose come fossero opere in versi. Basta aprire Pomeriggio bellinzonese, il racconto del 1978 riproposto da Casagrande, oppure Un giorno della vita, raccolta di racconti del 1960 ripubblicata da Marcos y Marcos: «Un 28 dicembre tiepido come questo, a più di mille metri, io non lo ricordo. La poca neve sgocciola dai tetti, e tutto scricchia e si sfa come al mese d’aprile. Esci di casa, e ti meravigli di sentire così forte il rumore dei treni che passano nel fondovalle; e se ti guardi in giro, vedi strane cose per aria: sembrano petali, come a primavera...». Sarebbe piaciuto a Salter, che amava gli scrittori capaci di osservare le cose da vicino. Tutto molto nocivo alla salute, pericoloso, da non leggere assolutamente!