Spesso quando si ricorda che la Svizzera ha oltre sette secoli di vita, si è portati a immaginare che anche la nostra festa nazionale abbia una storia antica. Invece è relativamente giovane, ha poco più di cento anni. Infatti nemmeno la fondazione del moderno Stato confederale a metà del XIX secolo era riuscita a suggerire di crearne una. L’idea ha preso corpo solo mezzo secolo più tardi, nel 1891, in occasione dell’anniversario del 600.mo della nascita della Confederazione. Ma furono necessari altri otto anni prima che nel luglio del 1899 il Consiglio federale approdasse alla scelta del 1. agosto come data per festeggiare il natale della patria, senza peraltro trasmettere entusiasmi: oltre a indicare la data, il decreto chiedeva a cantoni e comuni svizzeri di «far suonare le campane a festa per la durata di un quarto d’ora» e timorosamente ricordava che si lasciava libertà di organizzare altre forme di festeggiamenti. Il motivo di questo profilo basso? La lunga durata delle consultazioni era stata causata principalmente dal fatto che i cantoni chiedevano una celebrazione quieta e riflessiva e il Consiglio federale era fortemente condizionato dalla volontà di non recare concorrenza al carosello di feste federali (di tiro, di canto, di ginnastica ecc.) organizzate nei grandi centri, oltre che dalla paura di interferire nella pletora di commemorazioni riguardanti l’entrata nella Confederazione dei singoli cantoni o le date di epiche battaglie (alcune sopravvivono ancora, come a Sempach o al Morgarten). Per questo forse l’accordo fu possibile solo sulla data fissa e sul suono delle campane, rispettando comunque la priorità principale: trasmettere al popolo, con la festa nazionale, l’immagine di una «Svizzera semplice e lavoratrice».
Da questa storia è possibile dedurre almeno due sostanziali differenze della nostra festa del 1. agosto rispetto a molte feste nazionali di altri paesi. Una prima diversità – che oso definire psicologica, dal momento che più che un confronto con l’esterno riguarda le scelte che noi svizzeri siamo soliti effettuare, in particolare quelle federali che generalmente si concludono con un compromesso – suona a conferma della peculiarità del nostro Stato confederale. Nel nostro ordinamento democratico, permeato dall’importanza del federalismo, la parola «leadership» in campo politico gode di scarsissimo credito e genera un istinto contrastante in chi è chiamato a governare. Ne deriva che invece di affidare o delegare l’incombenza a un presidente o a un primo ministro, noi preferiamo risolvere i problemi assieme e così, anche nelle scelte «minori», siamo sempre portati a tener presente e rispettare le componenti sociali e morali della nazione, a garanzia di un patriottismo capace di evolvere lasciando che sia sempre l’appartenenza a prevalere sull’identità.
Ritornando al 1. agosto sono convinto che il senso di moderazione e la cautela iniziali, come pure le decisioni «minimaliste» del governo federale (in netto contrasto con i forti richiami, in molti casi legati ad atti di guerra o rivoluzionari che ancora oggi contrassegnano le analoghe feste nazionali di numerosi altri paesi) siano gli elementi che hanno consentito alla nostra festa nazionale di conservare quel senso contegnosamente misurato che oggi caratterizza anche un’atmosfera tutta particolare, sicuramente preferibile a quelle di altre feste nazionali.
Esiste infatti anche una seconda e più contrastante differenza, spesso riscontrabile anche confrontando gli inni nazionali. Mentre il nostro inno patrio – fino a pochi decenni fa addirittura ancorato a una melodia plagiata (dal God save the Queen inglese) – è in sostanza un salmo pastorale denso di riferimenti religiosi e morali, in altre nazioni i festeggiamenti indetti per date o ricorrenze che riguardano vittorie belliche, liberazioni o dichiarazioni ed eventi storici che resistono da secoli propongono cadenze marziali nelle musiche e testi legati a un patriottismo che blandisce il nazionalismo. Una palese dimostrazione di questa differenza l’abbiamo avuta in Francia con le celebrazioni del 14 luglio, cioè con la scenografica festa nazionale che commemora ancora la presa della Bastiglia, la caduta della monarchia e il culmine della rivoluzione francese. Mi limito a segnalare un particolare non minore, ma altamente significativo del 14 luglio di quest’anno: la festa nazionale è servita ed è stata «usata» per dare concretezza mediatica all’avvio di una nuova «grandeur» politica della Francia e per consolidare le ambizioni del suo attuale presidente. Lo confermano gli spettacolari rimandi alla «force de frappe» francese in campo militare e alla necessità di una «nuova» Nato (chi ha dubbi cerchi il Pdf «Document d’orientation de l’innovation de Défense (DOID) 2019». Aggiungete l’astuzia di Macron e le sue ambizioni per una futura «leadership» della politica europea e si approda a un 14 luglio architettato per esaltare l’identità piuttosto che l’appartenenza, vale a dire l’esatto contrario di quanto invece propongono la «bionda aurora» e il 1. agosto al popolo svizzero.