Antichi rumori

/ 19.02.2018
di Maria Bettetini

Mi è capitato tra le mani di recente un libro sulla «fonosfera» degli antichi, sui suoni che accompagnavano le loro giornate. Non avendo registrazioni, si deve partire dai testi scritti e dalle pochissime tracce di vita rappresentata in pittura o scultura, per dire quali fossero i suoni della quotidianità antica. Pensate a silenzi e cinguettii, atmosfera da idillio, zufoli di pastorelli? Sbagliato: città e campagne erano infestate da rumori diversi e sgradevoli. Animali, carri, macchinari da lavoro, schioccar di fruste (ebbene sì, la schiavitù è anche rumorosa), alterchi, improperi. E nemmeno una parete insonorizzata.

Certo, qualcuno si sarà potuto isolare, avrà potuto porre tra sé e la strada giardini e muri, ma i più soffrivano già dell’inquinamento acustico delle civiltà che lavorano. Lasciando ora l’antico al documentato libro di Maurizio Bettini (Voci. Antropologia sonora del mondo antico, Carocci), ho pensato di fare un esperimento, e di analizzare la nostra fonosfera. Per esempio, mi piacerebbe sapere se esistono suoni che ormai non ci accorgiamo nemmeno di sentire. Gli antichi – sempre loro – ritenevano per esempio che noi non percepissimo più i bellissimi suoni delle sfere che costituiscono l’universo intorno alla terra, perché abituati fin dal primo istante a sentirli come rumore di fondo. Come racconterebbe la leggenda sugli abitanti degli insediamenti intorno alle Cascate del Niagara. Il tema è pitagorico, ripreso nel frammento della Repubblica di Cicerone intitolato il Sogno di Scipione. Proviamo dunque l’esperimento: per una giornata presterò particolare attenzione ai suoni che mi circondano, alla mia fonosfera.

Il primo smentisce subito Pitagora e Cicerone. Dalle cantine proviene un fastidioso rumore, è la caldaia (non tace nemmeno in estate, per via dell’acqua calda!) che borbotta sgradevolmente, come una sorta di onda a cui poi segue un breve istante di silenzio, e poi riparte. Le finestre sono chiuse, ma io percepisco ugualmente questo «basso continuo». Non è così per tutti, mi dicono da anni alle assemblee di condominio, dove mi hanno anche fatto credere di aver posto rimedio con una certa lastra che avrebbe dovuto zittire il rumore. Non ci sono cascata. E non riesco a farci l’abitudine, a non avvertire il rumore. Però, riflettendo, forse gli antichi non erano così ingenui: infatti il suono delle sfere era continuo, il borbottio della caldaia ha ogni pochi minuti quell’attimo di pace, che mi fa percepire la differenza col silenzio. Che debba chiedere di incrementare il rumore fino a evitare le pause? Ci penserò, anche se non credo che oserò, già mi guardano male, i condomini, perché dal mio terzo piano come oso lamentarmi di un rumore che viene dai sotterranei? Cose da principessa sul pisello.

Accantono, per ora, e mi pongo in ascolto. Corrono passi concitati sulla mia testa, come ogni giorno al mattino e alla sera, nei festivi si ritarda solo l’orario della sera. Sono passetti, bambini che corrono, sembrerebbero. Eppure, sopra di me abita un’insegnante solitaria, di cui posso solo dire che è maniaca del pulito, perché ogni giorno la centrifuga della lavatrice sembra sventrare i suoi pavimenti e i miei soffitti. Mi ha sempre inquietato questa lavatrice, forse l’insegnante è una serial killer, mi sono domandata più volte, che deve pulire con energia ogni giorno gli effetti dell’efferato suo agire. Come altrimenti spiegare tale dispendio di energia elettrica e detersivo? Il dubbio per ora permane. I passetti sulla mia testa? Mah, amici – testimoni – dicono essere le corse dei bambini del piano di sotto, che rimbombano e sembrano quindi provenire dall’alto.

Passiamo ad altro: uno sferragliare. Ma questo è rumore gradito, i tram, soprattutto quelli vecchi, soprattutto se non proprio attaccati all’orecchio, come nel mio caso, fanno rumori amati, antichi. Dleng dleng, invece di un clacson, swop swop quando passano, clang clang sempre. Come una diligenza, come un vaporino di altri tempi, non si possono non amare. Poi, ribadisco, sono lontani, attutiti dalla presenza almeno di un fabbricato e una corte. Drin, il telefono, direte voi. No, drin per tre volte, è la portinaia che mi avvisa: sono io, porto pacchi e lettere, se poi mi fa sapere anche che cosa contengono mi sentirò ripagata (non lo dice, ma lo sappiamo entrambe). Il telefono invece bercia, il fisso, e ogni volta mi domando chi, che cosa è, poi afferro la cornetta e per fortuna da qualche (poco) tempo ho capito, controllo il numero. Prima dicevo «pronto» anche quando appariva la scritta «Anonymous», che un po’ avrebbe dovuto impensierirmi, e infatti regolarmente rispondeva, quando rispondeva, un improbabile Giovanni o Giuseppe dall’accento slavo che invitava a cambiare compagnia telefonica se non elettrica.

Il cellulare? È un suono più aggraziato, ma chi lo sente mai? Ormai non si telefona più, si messaggia e si whatsappa, si mandano foto con Instagram, si chiedono e inviano «like». Alla tastiera del computer permetto poi di fare rumori, giusto per tranquillizzarmi sull’effettiva partenza di una email, l’avvenuta correzione di un refuso. E anche per risvegliare l’attenzione, nell’assordante silenzio dovuto all’assenza di animali e di carri, e – per fortuna – di fruste.