Lunga vita ad Angelo Guglielmi che il 2 aprile ha compiuto 90 anni. Grazie a lui ho vissuto esperienze indimenticabili lavorando nella direzione programmi della Rai, a Roma. Nel mese di ottobre del 1965 la Rai vara un corso per formare una nuova leva di programmisti, dieci anni dopo quello del 1955, voluto dall’allora direttore Filiberto Guala. Il corso del 1955 aveva avuto fra i discenti nomi diventati famosi, come Umberto Eco e Furio Colombo.
Anche in questo caso la Rai si affida alla chiamata diretta, proponendolo a giovani che si erano messi in luce nel mondo della cultura, del giornalismo e dello spettacolo (e nei movimenti giovanili dei partiti di governo). I sindacati si oppongono a questa procedura minacciando il ricorso al tribunale del lavoro. Si aprono trattative e si arriva a una composizione della vertenza: la partecipazione al corso sarà aperta anche ai dipendenti purché muniti di un diploma di laurea e che dovranno, a differenza dei chiamati, superare un esame di ammissione.
In quel magico mese di ottobre 1965 io ignoravo del tutto quella lontana vertenza romana. Ero un cameraman felice e sconosciuto, da tre anni lavoravo alla sede Rai di Torino dove ero stato assunto grazie a un diploma di perito industriale fotografo. Avevo chiesto di essere assegnato alle riprese dei concerti di musica classica presso l’Auditorium, potendo così seguire tutte le prove che, come sanno i melomani, sono molto più godibili delle esecuzioni pubbliche. I colleghi mi consideravano un marziano, per loro l’assegnazione ai concerti era una sorta di Cayenna.
Nell’ingresso artisti, di fianco all’orologio per timbrare il cartellino, c’erano la macchina del caffè, un distributore di bevande e una bacheca con le circolari dell’azienda. Durante una pausa leggo il comunicato della direzione del personale con la quale si dà notizia della selezione che mi taglia fuori in quanto sono sprovvisto di un diploma di laurea. C’è però un codicillo: chi fosse stato sprovvisto di laurea, ma dotato di diploma di scuola media superiore, avrebbe potuto partecipare alla selezione allegando alla domanda la documentazione di lavori svolti in ambito culturale.
Essendo impegnato sul lavoro per lo più di pomeriggio e di sera, nelle mattine libere avevo preso l’abitudine di frequentare le lezioni alla facoltà di lettere moderne. Senza essere iscritto, per farlo occorreva la maturità classica, la liberalizzazione dell’accesso a tutte le facoltà per i diplomati sarebbe arrivata molti anni dopo. A quel tempo c’era libero accesso alle lezioni. In particolare seguivo il Corso di storia della lingua italiana, tenuto dal professor Corrado Grassi e in particolare il seminario su «Lingua e dialetto nella letteratura italiana contemporanea».
Grassi dimostrava nei miei riguardi una sorta di affetto poiché aveva avuto a suo tempo un percorso di studi analogo al mio: si era diplomato perito industriale meccanico e, per potere seguire la sua vocazione umanistica si era sottoposto da privatista all’esame di maturità e l’aveva superato con successo, esortandomi a fare altrettanto. Per completare il quadro del seminario propose a me di trattare il capitolo relativo al «Gruppo ’63», avendo saputo da uno dei suoi assistenti che avevo seguito con interesse i lavori dei suoi aderenti fino dal suo avvio, due anni prima.
Avevo allegato alla domanda il volume di Grassi, con le ultime 50 pagine occupate dalla mia relazione. Mi presento all’esame, a Roma, davanti a una folta commissione. Uno degli esaminatori prende in mano il volume, lo sfoglia e dice: «Vedo citato più volte il nome di Angelo Guglielmi, me ne vuol parlare?». Non chiedo di meglio e attacco: nel Gruppo ’63 sul problema della lingua non c’è identità di vedute. Tre esponenti se ne sono occupati a fondo: Umberto Eco, che potremmo collocare a destra, sostiene la tesi della coesistenza pacifica di due forme della lingua, quella comunicativa dello scambio e quella espressiva dell’arte.
Al centro dello schieramento troviamo Edoardo Sanguineti che difende l’alternanza fra avanguardia e museo, dove la lingua della ricerca sperimentale è destinata nel tempo a essere codificata come museo. Infine all’estrema sinistra si colloca la posizione di Angelo Guglielmi, il vero rivoluzionario, un incendiario secondo il quale è dovere di ogni artista opporsi strenuamente a ogni tentativo di normalizzazione, per bloccare sul nascere la tentazione ricorrente di spegnere la carica eversiva che l’opera d’arte deve avere.
Condividevo la posizione di Guglielmi, la esponevo con foga, ma notavo nei commissari l’affiorare di strani sorrisini che non riuscivo a spiegarmi. Di Umberto Eco ero amico, Edoardo Sanguineti era presente alla mia relazione, di Angelo Guglielmi ignoravo che faccia avesse, che lavorasse alla Rai e che fosse uno dei componenti della commissione d’esame. Da quel giorno è nato un sodalizio che dura tuttora.