Andare sempre contro: fatica rischiosa

/ 25.06.2018
di Luciana Caglio

Anche l’indignazione, sentimento politicamente in auge, subisce i contraccolpi dell’attualità. In parole povere, va giù di moda, da un momento all’altro. Sintomatica, in proposito, la vicenda di «Charlie Hebdo» che, il 2 settembre scorso, si è bruciato gran parte delle simpatie, conquistate il 7 gennaio 2015, quando la redazione del settimanale fu decimata da due terroristi di Al Qaeda. Quel tragico episodio doveva attribuire a un periodico di nicchia, apprezzato da pochi cosiddetti «intellos», una momentanea popolarità. Per un paio di settimane, le tirature, abitualmente magre, attorno alle 10-15mila copie, salirono a 4-5 milioni. Un’impennata passeggera sul piano editoriale, che, però, aveva lasciato un segno persistente su quello emotivo: «Je suis Charlie» era diventato uno slogan di portata mondiale. Sulla scia di quel «Ich bin ein Berliner», pronunciato da J.F. Kennedy, di fronte al muro di Berlino, nel giugno del ’63, esprimeva l’indignazione per un sopruso. Anche se attraverso le pagine di una pubblicazione, di per sé, tutt’altro che simpatica.

In verità, le recenti vignette sul «Séisme à l’italienne», brutte nella grafica e odiose nei contenuti, non stupiscono. Anzi, rispettano la linea di un giornale che vuole essere indisponente e sgradevole: perché questo sarebbe il prezzo da pagare per esercitare, a pieno titolo, la trasgressione, garantita dalla libertà di stampa. Certo è che, al di là delle inevitabili reazioni di leso patriottismo, con le inevitabili conseguenze politiche e diplomatiche, che si sono viste nell’Italia ferita del dopo terremoto, il caso «Charlie Hebdo» riapre un interrogativo, che è sempre nell’aria, nelle nostre democrazie: quale spazio spetta a chi sceglie di stare dall’altra parte, schierandosi sempre contro? Sul «Corriere della Sera», Pierluigi Battista spiegava bene il suo imbarazzo, del resto condiviso da molti di noi: «Je suis Charlie sempre anche se non ci piace». Per poi precisare: «Naturalmente deve esistere una reciprocità di diritti: se la satira vuole vedere riconosciuto quello dell’irriverenza assoluta e offensiva, deve anche riconoscere il diritto altrui a criticare le schifezze che si pubblicano in nome della satira». 

Riecco, dunque, il citatissimo principio attribuito a Voltaire (e non solo a lui): «Mi batto per difendere la libertà di chi la pensa diversamente da me».

Ma si giustifica il dubbio che questo sacrosanto principio possa poi trovare riscontro tra le file, oggi più che mai affollate e variegate, dei seguaci del no, sempre e ovunque. 

La categoria non è nuova, ma nuovi sono le sue dimensioni e il suo influsso. Un tempo si chiamavano i bastian contrari, e si muovevano prevalentemente nell’ambito privato, in famiglia, al bar, alla partita, considerati alla stregua di piantagrane innocui. Negli ultimi decenni, con il ’68 e la psicologia di massa, sono diventati una categoria, di cui tener conto nelle nostre società, sempre più tolleranti e persino compiaciute nei confronti dei sostenitori del no: da modesti rompiscatole, sono stati promossi a contestatori, spiriti critici, innovatori, moralizzatori, e personaggi onnipresenti. Dalla politica all’economia, dall’ecologia alle scienze, dalla letteratura alle arti, gli oppositori dello status quo hanno trovato un terreno in cui cimentarsi lanciando messaggi, spesso allarmanti e, persino, suggestivi. Stiamo, insomma, assistendo a una moda di successo, che sfrutta il fascino dell’insolito, della ventata d’aria fresca. Gran tentazione, insomma, andare contro corrente: ma bisogna essere dotati. Ci era riuscito, a suo modo, Montanelli, conducendo sul «Giornale» di allora, una rubrica che s’intitolava proprio così.

Altrimenti, come succede adesso, perché troppo praticato e sotto la spinta di motivazioni banali, andare contro sfocia nelle derive di alternative persino pericolose, tipo antipolitica, antiscienza, antitecnologia, con conseguenze che fanno notizia negativamente, come bimbi non vaccinati o referendum a iosa. Se, agli inizi, scegliere il no sempre e ovunque, può sembrare un hobby divertente, strada facendo, si rivela una fatica sprecata e rischiosa.