Gentile Silvia,
tutto è nato da una frase: «amo mio marito più dei miei figli». Lo affermo e lo confermo anche se, dopo questa incauta dichiarazione, alcune amiche non mi salutano più. Sembra ovvio che una buona mamma debba amare suo figlio più di chiunque altro e forse nei primi mesi dopo il parto è proprio così. Ma quando il cucciolo si allontana andando al nido o all’asilo, le cose si riassestano e non è detto che lei rimanga una «supermamma» o una «solomamma» per tutta la vita.
Dato che lo scandalo si è diffuso come un sasso gettato nell’acqua, sono sempre più le amiche che mi chiedono: «ma veramente hai detto quella frase?». «Sì, l’ho detta ma, ma ora, per favore lasciatemi in pace». Invece tutto quello sdegno sta finendo per farmi sentire in colpa ma, prima di cospargermi il capo di cenere e di indossare per sempre un pre-maman, vorrei sentire cosa ne pensa lei e i suoi lettori di tutta questa storia. Grazie. / Marisa
Cara Marisa,
niente paura. Già mia suocera, negli anni trenta, esprimeva lo stesso parere e non risulta che sia stata mandata al rogo, anzi, era considerata una donna emancipata.
Innanzitutto il verbo amare non conosce l’imperativo e non c’è niente di più falso che dichiarare sentimenti che non si provano. Quando lei afferma di amare di più suo marito non diventa automaticamente una cattiva madre: esprime una priorità, non una negazione. Di questi tempi la maternità è diventata problematica e, come tale, la troviamo sul banco degli imputati per «troppo» o «troppo poco» amore per il figlio, spesso unico.
Credo che, se immaginiamo un metro dell’amore materno in cui da una parte c’è la cifra zero e dall’altra mille, ognuna di noi stabilirà la sua posizione. Non basta essere madri per essere materne così come non è sufficiente non avere figli per essere anti-materne. La storia ci tramanda la vita di donne che, senza mai partorire, hanno pensato e agito maternamente. E anche oggi ne conosco molte che incarnano le virtù materne in modo simbolico, esprimendo in vari ambiti il «potenziale creativo» che, a mio avviso, contraddistingue la maternità.
Ma torniamo all’antinomia tra marito e figli, forse più che di amore (ce n’è per tutti) penso si tratti di tempo (questo sì insufficiente) da dedicare all’uno o agli altri. Per i figli piccoli la dedizione materna è sempre insufficiente, per i figli grandi sempre eccessiva. Si va dal «mamma non ci sei mai» al «mamma non starmi addosso». Cambiare gli investimenti amorosi è pertanto opportuno in una economia, come quella della famiglia, costantemente in mutamento.
Anche i mariti differenziano le loro richieste. Dopo la prima paternità si sentono detronizzati e chiedono con insistenza di riottenere la supremazia monarchica. Ma se la madre di famiglia si attiene a una giustizia distributiva alla fine ognuno avrà la sua parte. Un vecchio proverbio afferma che mentre i mariti vengono dalla porta, i figli vengono dal cuore. Ma proprio perché siamo tutti nati in un grembo femminile, si pone il compito di superare questa implicazione e di fare sì che il «figlio interno» divenga un «figlio esterno».
La fantasia delle madri di mantenere il generato dentro di sé è molto potente e occorre che un terzo, una figura paterna, o una dimensione terza, come un impegno lavorativo, una passione culturale, un impegno sociale, s’interponga tra di loro. In questi anni mi sembra che il rischio più grave sia rappresentato dalla mamma adesiva, incombente, sostituente. Quella che dice «adesso andiamo a fare i compiti», ma i compiti spettano al figlio, non a lei. La stessa, non sopportando che il suo bambino litighi con un compagno, subito interviene per difenderlo, così come è pronta ad accusare gli insegnanti quando gli affibbiano un brutto voto o una nota in condotta. Mentre cerca di proteggerlo dalle intemperie della vita crescendolo in una tiepida serra, lo indebolisce impedendogli di adattarsi all’ambiente e di produrre anticorpi contro la disperazione.
Come avrete capito, mi sembra più pericoloso spostare eccessivamente il baricentro verso i figli che verso il marito. Mantenendo salda l’unione di coppia, prendendosi cura della relazione coniugale, si sostiene la figura paterna, la più fragile della famiglia. Sappiamo che gli adolescenti, per superare i perigli dell’età, hanno bisogno di sentire che accanto a loro ci sono due genitori e che, se vanno d’accordo e si vogliono bene, tanto meglio.
Quando tutto va come deve andare, i figli escono di casa, fanno la loro vita, mentre padre e madre, tornati a essere soprattutto marito e moglie, ritrovano l’intimità dei primi tempi e rinsaldano l’amore che li ha uniti «nella buona e nella cattiva sorte».