Alleanze europee

/ 20.05.2019
di Aldo Cazzullo

Saranno davvero elezioni europee di portata storica, come dice Angela Merkel. E non soltanto perché per la Cancelliera saranno le ultime, mentre saranno le prime per Emmanuel Macron.

Le alleanze europee sono in pieno rimescolamento. L’obiettivo dei sovranisti – quelli italiani sono divisi in due famiglie: in una c’è la Lega, con Marine Le Pen, nell’altra la Meloni, con i polacchi di Jaroslaw Kaczynski – è sostituirsi ai socialisti nell’alleanza con i popolari che ha retto finora l’Unione. Si tratta di un obiettivo impossibile, finché alla guida del Ppe c’è appunto Angela Merkel. Nell’ultima intervista, pubblicata in Italia da «La Stampa», in Francia da «Le Monde», in Spagna da «La Vanguardia» – impressionante la differenza di livello con le interviste dei vicepremier Salvini e Di Maio, impegnati fondamentalmente a lanciare slogan e schivare le domande – la Cancelliera ribadiva il suo No a qualsiasi accordo con la Lega e con i suoi alleati.

È invece possibile che la somma degli eurodeputati popolari e socialisti non dia la maggioranza assoluta. Non a caso Macron, che dei sovranisti è il grande nemico, dialoga con il Pd per allargare il fronte progressista – in grande difficoltà un po’ ovunque, a parte Spagna e Portogallo – ai liberali e ai verdi.

Il problema della collocazione europea vale soprattutto per i Cinque Stelle. Di solito i populisti prendono voti soprattutto a sinistra – come Podemos o Jean-Luc Mélenchon – o a destra, come Vox e la Le Pen. I grillini sono invece trasversali. Se vanno con la destra estrema, si scoprono a sinistra; e viceversa. Il tentativo di dialogo con i Gilet gialli era un grave errore; Di Maio, che non è uno sprovveduto, l’ha capito. In passato Beppe Grillo aveva portato il suo gruppo all’abbraccio con Nigel Farage, che gli stava palesemente simpatico.

Farage non è un estremista di destra. È un nazionalista britannico. Quando il suo partito è finito in mano a fanatici islamofobi, lui l’ha lasciato e se n’è fatto un altro. Il suo idolo è Margaret Thatcher. Sostiene, forse con ragione, che la Iron Lady non avrebbe mai firmato il trattato di Maastricht. Farage non pensava di vincere il referendum sulla Brexit (così come Trump non credeva di essere eletto); infatti sulle prime aveva lasciato la politica, sostenendo di aver ormai raggiunto l’obiettivo. Ora il disastroso fallimento della gestione politica della Brexit l’ha rilanciato.

Il caso inglese merita un approfondimento. Stavolta il Regno Unito non avrebbe dovuto neanche votare. I tre anni di incertezza seguiti al referendum del giugno 2016 hanno fatto sì che i sudditi di Sua Maestà siano di nuovo chiamati alle urne. Ma i pochi che andranno davvero a votare lo faranno soprattutto per punire la classe politica – e quindi i due principali partiti, il conservatore e il laburista – per aver perso tutte le occasioni in questo lungo periodo di impasse. Paradossalmente, le urne europee saranno un appuntamento sentito soprattutto dagli anti-europei (a parte i liberaldemocratici che dovrebbero avere un buon risultato).

La speranza di Macron è che non vada allo stesso modo in Francia. Tradizionalmente, il voto per il Parlamento di Bruxelles (i francesi preferiscono chiamarlo il Parlamento di Strasburgo) penalizza il partito del presidente della Repubblica. Non ci si potrebbe stupire quindi che la notte del 26 maggio il Rassemblement National di Marine Le Pen si rivelasse il primo partito di Francia. Va ricordato però che il sistema elettorale francese prevede il doppio turno. La Le Pen può sperare di salire all’Eliseo solo se nel 2022 al ballottaggio si troverà di fronte un estremista di sinistra. Contro Macron perderebbe di sicuro, sia pure meno nettamente di quanto non abbia perso il 7 maggio 2016.

Resta da capire quale sarà nei prossimi mesi il ruolo della Merkel. Da tempo sul viale del tramonto, la Cancelliera conserva la sua autorevolezza perché dietro ha il Paese più solido d’Europa. La sua fermezza nel rifiutare la mano tesa dei sovranisti è da apprezzare. Dovrebbe però capire che l’ascesa dei populisti è dovuto anche alle politiche di austerity imposte da Berlino, che hanno messo in ginocchio in primo luogo l’Italia. Ora anche l’economia tedesca ha rallentato. È il momento degli investimenti e anche della spesa pubblica. La Merkel saprà cambiare passo?