Alla corte di re Trump

/ 13.03.2017
di Paola Peduzzi

Nella Casa Bianca di Donald Trump vige la regola darwiniana, il più forte resiste, gli altri soccombono, anche in modo brutale. La misura di questa forza non riguarda la tenuta fisica – che pure ci vuole: chiedete ai giornalisti americani che si occupano di Trump in che frenesia vivono, vi diranno che rimpiangono i sabati in cui rubavano lo stipendio perché non accadeva nulla – quanto piuttosto la fedeltà, e la capacità di esprimerla. Fedeli sono un po’ tutti, naturalmente, non ti siedi alla corte di Trump se non sai omaggiare il tuo re in modo adeguato (il «team of rivals» lincolniano è sepolto), ma c’è chi riesce a rendere credibile il trumpismo anche al di fuori del cerchio magico e chi invece balbetta un filo troppo. I secondi sono nel mirino del presidente che come si sa consuma tantissima televisione e trova anche il tempo di guardare il suo portavoce Sean Spicer durante la conferenza stampa quotidiana, una passione irrituale.

Ma ogni giorno salgono e scendono le quotazioni dei consiglieri trumpiani, a seconda delle ire del presidente e delle performance pubbliche: nelle ultime settimane sono scese quelle di Reince Preibus, il chief of staff, che non è amato dagli ideologi di Trump ma che serve al presidente come collegamento – invero fragile – tra la Casa Bianca e il Partito repubblicano. Nella faida darwiniana Preibus però non è solo, e gli amori e i disamori oscillano in modo convulso: Spicer sembrava finito e invece è lì che mette il guinzaglio agli odiatissimi media, ha soltanto cambiato il colore dell’abito su istruzioni del presidente. Anche Kellyanne Conway, il volto di Trump nelle televisioni, ex capa della campagna elettorale, è attaccatissima dalla stampa – lei ci mette del suo, ogni tanto fa errori pacchiani, altre si rifugia, ironia, nel misoginismo – ma quando si è discusso per giorni della sua posizione poco ortodossa sui divanetti dello Studio Ovale è sembrato anche a molti antipatizzanti che l’accanimento nei suoi confronti fosse eccessivo.

In questa corsa alla sopravvivenza grande peso hanno due elementi: gli umori di Trump e quel che dicono i due custodi del progetto trumpiano, Stephen Bannon e Stephen Miller. Sugli umori del presidente si scrive ormai di tutto, i giornali sono pieni di indiscrezioni, e più ci sono indiscrezioni più l’umore del presidente peggiora: Trump è furioso. Per gli attacchi dei «media-contro-Trump-a-tutti-i-costi», come li ha definiti il fedelissimo Sean Hannity su Fox News, e per lo scontro con la comunità d’intelligence, che procede a colpi di accuse e controaccuse rendendo mainstream quella enorme teoria del complotto che si chiama «deep state», i servizi segreti deviati. I custodi del progetto trumpiano fanno di tutto per calmare l’animo del presidente ed eccitare quello degli elettori, ribadendo con forza il legame con il popolo e non con il palazzo, deviato o no che sia. Di Bannon s’è scritto e detto molto, è una figura al tempo stesso affascinante e spaventosa, che ama questo suo ruolo da Rasputin.

Miller è meno noto, ma altrettanto rilevante nella costruzione del progetto trumpiano: 31 anni, è l’unico ad aver avuto una qualche esperienza di governo, lavorando al Congresso per otto anni – anche con Jeff Sessions, attuale ministro della Giustizia finito in uno scandalo ancora tutto da analizzare per i suoi rapporti con la Russia e le sue presunte menzogne durante le audizioni di conferma al Senato. Miller era famoso al Congresso perché produceva documenti e dichiarazioni appassionantissime, fuori dagli schemi istituzional-noiosi delle procedure parlamentari, e questa sua passionalità si ritrova anche nei discorsi di Trump, su cui Miller lavora più degli altri. Dimostrando già di avere un’abilità politica che forse altri non hanno, o non mostrano: Miller ha predisposto un discorso per l’inaugurazione della presidenza incendiario e polemico, ma quando il pubblico è diventato il Congresso, Miller ha scritto per Trump un discorso posato, ragionevole.

In realtà si trattava di tatticismo comunicativo raffinato, visto che poco dopo, su Twitter, Trump ha recuperato toni e follie consueti, ma questo modo di muoversi, modulando l’offerta, è uno dei tratti distintivi di Miller, il quale finora è comparso poco in televisione ma quando lo ha fatto si è mostrato molto composto (e con il nodo della cravatta più piccolo dell’Amministrazione) ed efficace al punto di conquistarsi gli applausi pubblici di Trump (ambitissimi). Ma il bello deve ancora venire: Miller deve uscire dalla retorica, deve ideare provvedimenti che non vengano bloccati dai giudici, deve diventare quello che dice di essere già, l’«implementer» della rivoluzione di Trump.