Un amico mi chiede una testimonianza per un libro che sta preparando sulla storia del Festival di Sanremo. In un primo tempo nego di esserci mai stato, poi lui mi spedisce tre fotografie nelle quali mi si vede sul palco del teatro del Casinò mentre manovro una telecamera e non posso più sottrarmi. Con una premessa: essere presente al Festival non è mai stato in cima alla classifica dei miei desideri, di conseguenza i miei ricordi sono labili. Per tre anni e mezzo, dall’aprile 1962 fino all’ottobre del 1965, ho fatto parte dell’esercito degli Invisibili. Lo sono tutti coloro che, pur essendo vicini per motivi di lavoro a personaggi di primo piano, non sono notati. Come gli autisti, i camerieri, le sarte, i parrucchieri, non percepiti come potenziali testimoni e perciò in grado di ascoltare le conversazioni dei Famosi.
Nel 1965 ho fatto parte della squadra di riprese televisive impegnata in un Festival che aveva ancora un’aria casereccia, di affare di famiglia, al teatro del Casinò, dove si circolava liberamente e i cantanti, seduti in platea, potevano ascoltare le esibizioni dei colleghi rivali. Eravamo in quattro cameraman. Le prime file della platea erano occupate da commendatori milanesi che per farsi riprendere in primo piano ed essere visti dai famigliari e dai compaesani, infilavano banconote da 10mila in tasca al collega incaricato di inquadrare il pubblico. Come ultimo arrivato nella squadra, mi era stata assegnata la telecamera meno impegnata nelle riprese. Dotato del piccolo zoom, da 2 a 8 pollici di lunghezza focale, ero collocato sul palcoscenico dietro le quinte con il compito di riprendere i cantanti di tre quarti. Capitava che gli esordienti per l’emozione esitassero un po’ troppo a entrare in scena; in quel caso mi arrivava in cuffia l’ordine di sollecitarli, io eseguivo con una leggera spinta di incoraggiamento.
Wilma Goich era in onda quando cantando alzò le braccia mostrando sotto le ascelle una vistosa macchia di sudore. Dalla regia partì l’ordine: «Stringi! Stringi!», subito eseguito. A mezzogiorno, volendo, si andava a pranzo alla mensa dei croupier dove si mangiava benissimo e si conversava amabilmente. Di quella prima esperienza al Festival la mia memoria non trattiene né un cantante né una canzone, solo il titolo a tutta pagina di un quotidiano: «È morto Winston Churchill». Era un lunedì, giorno di riposo per la squadra; con un collega siamo andati a Nizza, attirati dalla fama di uno chef fuggito dalla Spagna di Franco che nel suo ristorante cucinava una paella strepitosa. È un dettaglio che mi rappresenta bene: capace di percorrere 100 chilometri per mangiare una paella, privo di interesse verso il mondo della musica leggera, al punto da non ricordare né una canzone né un cantante. Sarei ritornato al Festival una seconda e ultima volta nel 1997 per condurre la radiocronaca in diretta su Radio 2, in pratica per coprire con interviste le pause pubblicitarie in onda sui televisori.
Il nostro studio era sotto il palcoscenico dell’Ariston. Conducevano Mike Buongiorno, Valeria Marini e Piero Chiambretti. Mi colpirono due vistose differenze rispetto alla mia precedente esperienza: la ferrea vigilanza affidata alle guardie del corpo e la presenza asfissiante di operatori televisivi e di giornalisti in ogni luogo. Il primo giorno arrivo in albergo e devo sostare in attesa che liberino la mia camera. Nella hall un manipolo di bionde ragazze coscia lunga avvolte in mantelli neri camminano a grandi falcate avanti e indietro con il telefono incollato all’orecchio. Scrutano ansiose la porta dell’ascensore.
Sui divani, in attesa di ordini, stravaccano appesi a grappolo gli operatori nella posa di chi è stato appena abbattuto a fucilate, ciascuno tenendo abbracciata la sua telecamera. Quando le valchirie arrivano nei miei paraggi catturo brandelli delle loro conversazioni: «Al Bano l’ho già fatto stamattina presto, ma Patty Pravo è impossibile, qua all’albergo dicono che non l’hanno mai vista scendere prima delle tre del pomeriggio». A un certo punto una delle ragazze si accorge della mia presenza, si avvicina alla poltrona dove sto seduto e dice: «Scusa, in questo momento mi sfugge il tuo nome. Chi sei già?». Mi presento e lei: «Ti dispiace se ti faccio qualche domanda?». «Perché no?». «Aspetta che chiedo al boss». Telefonata concitata: «Senti, Patty non scende, potrei fare Bruno Gambarotta». Pausa. «Lo so anch’io che Gambarotta non è Patty Pravo e che non canta ma lui è qui, mentre lei non c’è e tra poco dobbiamo andare in onda». Così posso esternare alla telecamera di chissà quale emittente il mio parere sui sedici vestiti da sera della Marini, sulla composizione delle giurie, su certi aspiranti campioni, argomenti sui quali ignoro tutto, dando così modo alla giornalista di farmi i complimenti: «Sei meglio di Bruno Vespa».