Accettare la vittoria

/ 28.11.2016
di Paola Peduzzi

Prendere le misure del presidente Donald Trump: questa è l’attività più impegnativa per leader internazionali, diplomatici, politici americani, commentatori. Il prossimo inquilino della Casa Bianca non ha abbandonato i suoi toni diretti e umorali – e Twitter resta il suo strumento di comunicazione privilegiato – mentre tenta di dare una forma alla sua prossima Amministrazione. Alcune nomine ci sono già state, altre sono in discussione: Trump deve mettere d’accordo il Partito repubblicano e soprattutto sé stesso, e mentre il mondo si divide tra chi crede in un’imminente normalizzazione del neopresidente e chi la esclude con certezza, diventa più facile immaginare che nemmeno lui stesso sappia ancora da che parte pendere.

Tra mani tese agli amici più fedeli – in Europa spicca Nigel Farage, leader ad interim dell’Ukip, al quale Trump avrebbe offerto il posto di ambasciatore britannico negli Stati Uniti, come se fosse una scelta sua e non del governo di Londra, che infatti ha risposto piccato che non se ne parla proprio – e assestamenti politici sulle questioni sollevate durante la campagna elettorale (il muro col Messico, l’accordo sul clima, per esempio), Trump insiste sul suo dare voce alle contrarietà americane nei confronti del mondo e nei confronti dei poteri forti. Non ci si capisce granché, ma è la novità di avere uno showman alla Casa Bianca, dicono i più rassicuranti, «enjoy the suspense». C’è però chi non riesce proprio a divertirsi e anzi continua a sperare che la presidenza Trump poi non accada davvero. 

I comici hanno già identificato nella «Bolla» questo mondo di indignazione permanente, in cui non si accetta nulla: non la normalizzazione di un candidato al di fuori degli schemi, ma nemmeno la sua stessa elezione. Le proteste continuano, lo slogan «not my president» compare nelle piazze (delle città più grandi degli Stati Uniti, quelle più aperte al mondo e quelle, ahinoi, meno rappresentative dell’umore degli americani) e sui social come un urlo di guerra mentre ancora il conteggio dei voti continua a dare spazio a chi non ci vuole stare.

Hillary Clinton ha vinto due milioni di voti in più circa rispetto a Trump, il voto popolare la consacra presidente, e a nulla serve ricordare – nella Bolla, s’intende – che il presidente degli Stati Uniti non è eletto dal popolo, ma da quei grandi elettori che ora vedono i proprio nomi circolare nei forum e nei siti dell’indignazione con appelli più o meno minacciosi: voi potete ancora fare qualcosa, voi potete ribaltare tutto, boicottare Trump, mandare alla Casa Bianca chi ha vinto il voto popolare. Si tratterebbe di un semigolpe, ma tant’è: tutto è meglio rispetto a quattro anni di imprevedibilità al potere. 

I leader democratici si muovono lungo questa linea scivolosa, tra la tentazione di rifiutare la vittoria di Trump e il necessario – ancorché infruttuoso – dialogo con il presidente repubblicano. Mentre Trump si mostra «magnanimo» nei confronti dei dolori hillaryani e rinuncia alla via forcaiola contro di lei – quella del «Lock her up», mettetela in galera, che ha animato tutti i comizi e la stragrande parte del merchandising trumpiano: se si guardano i social, molti fan del prossimo presidente non sono affatto d’accordo nel deporre le armi giudiziarie contro l’ex first lady – il Partito democratico cerca di ritrovare la sua identità, lasciando per l’intanto a Barack Obama l’onere di fare da garante anche nel futuro del rispetto per le istituzioni e per la leadership americana. L’indignazione aleggia anche tra i leader democratici: c’è chi minaccia battaglie epocali al Congresso, chi spera in qualche occasione di impeachment, ma i numeri come si sa stanno dalla parte dei repubblicani, in modo consistente.

Così Elizabeth Warren e Bernie Sanders, custodi dell’ala più radicale dei democratici, quella in cui oltre all’indignazione si è convinti che con Sanders candidato non ci sarebbe stata storia contro Trump (non si sa bene sulla base di quali dati questa tesi sembri tanto plausibile), si incaricano di trasformare la rabbia della sconfitta in richieste di responsabilità da parte del presidente: rivedremo i termini della proposta del Partito, dicono, ma non ne lasceremo passare una a Trump. Come questo possa accadere è ancora da vedere, dal momento che gli sconfitti devono dotarsi di una nuova leadership – Keith Ellison del Minnesota pare il favorito per la guida del Democratic National Committee – e al contempo di una nuova offerta politica. Nel frattempo si regolano i conti e si prova a non alienarsi la piazza che, a dispetto della confusione assoluta, è molto chiara: peggio della vittoria di Trump c’è soltanto la volontà di accettarla come definitiva.